Quel mazzolin di fiori…

Di Ilaria Patacconi (foto di congerdesign)

Gli alberi grandi, come il tiglio, la betulla, l’abete rosso, il faggio. Ne siamo circondati, hanno un sapore ma nessuno si immagina che la corteccia interna, le foglie, la linfa, le resine siano non solo commestibili, sono buone!

Credo questa sia un’ottima introduzione allo spiegare quello che oggi è diventata quasi una moda ma che in realtà fino all’avvento dell’industrializzazione a fine ‘800 era una delle pratiche più comuni.

Sto parlando del “foraging” (“alimurgia” in italiano) ovvero la pratica di raccogliere cibo selvatico nel suo ambiente, senza danneggiare la natura per poi impiegarlo in cucina.

Cibo che cresce spontaneo nei boschi di montagna, nelle foreste, tra prati e campi, nelle acque dei laghi, lungo gli argini dei fiumi e nelle lagune. Non solo erbe, quindi, ma bacche, frutti, foglie, radici e cortecce commestibili, muschi e licheni, alghe e piante acquatiche.

Un volto al cambiamento

Se questa pratica ha trovato il successo e il favore di alcuni dei più famosi ristoranti al mondo c’è da “ringraziare” René Redzepi, lo chef del Noma di Copenaghen, più volte entrato nella lista dei “World’s 50 Best Restaurants” stilata annualmente dal mensile inglese “Restaurant”.

Anche se René non ha fatto altro che mantenere l’utilizzo di una pratica antica come l’uomo, ed utilizzarla nel suo ristorante, dobbiamo riconoscergli il merito di non averla dimenticata o abbandonata come la maggior parte del mondo.

Sulla scia della “New Nordic Cousine” e alla riscoperta di tradizioni centenarie sono sempre di più gli chef che utilizzano pesti di abete, brodi di corteccia e birre di lichene, riportando l’attenzione sull’importanza della biodiversità e utilizzando un’alternativa a “impatto zero” alle coltivazioni intensive.

Le mille risorse della natura

Chi credeva di liquidare il “foraging” come un’attività marginale o comunque quasi come un hobby dovrà ricredersi.

Dall’Europa arrivano infatti studi e progetti che lo riconoscono come una pratica in grado di generare crescita e occupazione per le attività rurali, spesso in difficoltà quando basano il proprio reddito sulla sola coltivazione.

Il “foraging” potrebbe portare a diversificare le entrate delle aziende e “sopperire” alle perdite che possono capitare in un anno nel quale la coltivazione non è fruttuosa come sperato.

Forti camminatrici, conoscitrici dei boschi e capaci imprenditrici

Tornano nei confini nazionali, parlare di “foraging” è sinonimo di storie al femminile, due esperienze diverse ma con un in comune il forte rispetto per la natura e quello che ha da offrire.

Un passato da ristoratrice stellata quello di Eleonora Cunaccia che da circa 15 anni ha invece fatto della raccolta la sua attività quotidiana. Nei suoi boschi, quelli della Val Rendena in Trentino-Alto Adige che in un’intervista racconta “Io andavo nei boschi da sempre e quello che faccio ora è semplicemente mettere in vasetto la natura”.

Insieme al fratello gestisce “Primitivizia” l’attività frutto del suo lavoro attraverso la quale vende le erbe che raccoglie: mugolio, estratto di gemme di Pino mugo (che va fortissimo negli Stati Uniti), aglio della Regina, radicchio dell’orso, luppolo, buon enrico, crescione, tarassaco, rosa canina, rabarbaro…

The Foraging Academy

Altra storia quella di Valeria Mosca fondatrice di “Wood*ing – Wild Food Lab” un laboratorio di ricerca e sperimentazione sull’utilizzo del cibo selvatico per l’alimentazione e la nutrizione umana a Seregno (in Brianza).

Si dedica in primis alla catalogazione delle specie selvatiche a scopo alimentare (già più di 9000 specie) ma fa anche attività di consulenza per ristoranti e formazione in una “academy” con corsi per professionisti e non del “foraging” della durata di un anno

Ma non si ferma qua, periodicamente Wood*ing offre un menù degustazione per poter apprezzare tutte le note aromatiche che le erbe raccolte possono aggiungere ad un piatto.

Prato fiorito

Se tutto questo vi avesse incuriositi abbastanza da farvi pensare di uscire per una passeggiata alla ricerca di una delle migliaia di specie commestibili che abbiamo nei nostri sottoboschi ricordiamoci che il “foraging” non è un’attività che si può improvvisare, occorrono studio, esperienza e rispetto nei confronti dell’ecosistema, ma se vogliamo provare, possiamo iniziare da qualcosa che conosciamo tutti bene.

Le margheritine sono un ottimo modo per approcciarsi a questa pratica, vanno raccolte quando sono ancora un bocciolo e possono essere usate sia in una frittata, che messe sotto sale o sott’olio come faremmo con dei capperi e vedrete, hanno un sapore sorprendente!